Logos

Il linguaggio è il logos e il logos è il linguaggio. In entrambi i casi si tratta di quella struttura, quel sistema, la cui presenza è sempre stata avvertita fin dai primi pensatori, i primi teorici, i primi sapienti e che costituisce propriamente la condizione per cui è possibile connettere tra loro elementi in modo tale da poter costruire sottosistemi, sequenze, forme, discorsi e pensieri. Questa concezione però, nel corso dell’articolarsi del logos è andata in disuso e al suo posto sono state inserite due concezioni differenti e che vengono, almeno in parte, considerate tra loro separate e cioè il linguaggio (inteso come espressione verbale) e il pensiero. Presso il pensiero degli antichi questa separazione era inesistente, il concetto di linguaggio inteso esclusivamente come espressione verbale non esisteva, la parola era tale sia verbalizzata che pensata.

Presso i greci che inventarono questa parola, “logos”, essa si riferiva prettamente alla parola. Parole come, ad esempio, catalogo, decalogo, dialogo, epilogo, provengono tutte da lì, dal greco antico e si riferiscono tutte ad un discorso, un argomentazione, cioè un insieme ordinato di elementi connessi tra loro in base a regole ben precise. E così anche parole come antropologo, archeologo, astrologo, fisiologo, teologo, si riferiscono tutte a individui che parlando di determinate cose. Sì, esattamente, che parlano, non che hanno studiato queste cose. Che le abbiano studiate non è necessario, ci sono un sacco di persone che raggiungono uno di questi o altri titoli senza studiare e comunque sia, lo studio è un fatto secondario, conseguente del fatto che si parla. Se qualcuno non avesse prima parlato di determinate cose, altri non avrebbero potuto studiarle. E’ un dato di fatto: affinché qualcuno possa studiare qualcosa, occorre che qualcuno ne parli e può essere in effetti anche la stessa persona, all’inizio della nascita di una nuova disciplina dev’essere necessariamente così, che se uno è il primo a studiare qualcosa, o significa che è il primo a parlarne, cioè che ciò che studia è prettamente ciò di cui egli stesso parla (come ad esempio è per la Scienza della Parola), oppure che ciò che studia è qualcosa di cui ha parlato un altro il quale, dunque, non sapeva nulla di ciò che diceva. Certo, non è quest’ultima un’eventualità poi così improbabile, soprattutto se consideriamo come le persone comunemente formano la propria conoscenza. Comunque sia, se nessuno ha mai parlato di una cosa, allora è impossibile che qualcuno possa studiarla e certo, non è una regola necessaria che chi parla, parla perché ha studiato, bensì è una regola necessaria che chi studia, studia perché parla, o pensa, che è la stessa cosa. Generalmente, invece, si pensa che lo studio non sia linguaggio, invece il punto è proprio questo, lo studio è un’attività intellettuale e, come tale, lo studio è interamente linguaggio, è costituito allo stesso modo in cui si costituisce il linguaggio, è una connessione di elementi, un’acquisizione di elementi per la costruzione di proposizioni, cioè per l’inserimento di tutti i passaggi che conducono, partendo da una premessa, ad un’affermazione coerente con quella premessa.

Oggi, tanto quanto parlare di linguaggio, quanto di logos, che poi è la stessa cosa, richiede appunto qualche precisazione perché la persona, dicendo “linguaggio” o “parola”, è indotta a pensare alla verbalizzazione, per cui occorre qualche passaggio, qualche argomentazione, per condurla dinanzi alla considerazione che anche il pensiero è fatto di parola, che anche un’immagine è fatta di parola, che qualunque cosa si possa prendere in considerazione è fatta di parola, di logos. La stessa distinzione tra “linguaggio” e “pensiero”, è possibile a nient’altro che grazie ad una procedura linguistica, per questo, volendo proprio scegliere, oggi lo chiamiamo “linguaggio” e non “pensiero”. 

Non di certo perché siamo vincolati ad un significante, ma chiamare il logos “pensiero”, o come talvolta suggeriscono alcuni “energia” non apporta nulla di più, anzi potrebbe eventualmente distogliere dalla considerazione, essenziale, che riflette propriamente attorno al suo funzionamento, cioè che si costituisce attraverso una struttura ben organizzata in modo tale da connettere tra loro elementi e poter così costruire sistemi e produrre forme, la questione è che se non fosse organizzata in questo modo non ci sarebbe alcun significante, questa è la questione, si tratta di una struttura, una struttura organizzata e non un getto, non un’emissione.

Così come senza la parola non si potrebbe distinguere il pensiero da ciò che pensiero non è, distinguere la parola dal logos è praticamente impossibile, dato che il “logos” è una parola.

Tuttavia, possiamo distinguere il linguaggio dalla parola esclusivamente per uso teoretico, indicando con l’uno la struttura che consente l’esecuzione di qualcosa, cioè della parola, mentre con la parola ciò che è eseguito da questa struttura. Anche perché la parola, questa esecuzione, può compiere operazioni e porre domande nei confronti della propria struttura. In questo si può ravvisare la possibilità di distinguerli.

Questa struttura è ciò che fornisce gli strumenti per dire e per pensare, ma non è che consente al pensiero di dirsi, consente proprio di pensare, senza linguaggio non è possibile formulare alcun pensiero.

Ciascuna volta in cui si riflette su una qualunque cosa, dal calcolo logico formale più sofisticato al domandarsi se la persona mi ama, tutte queste riflessioni non potrebbero farsi se ogni volta ciascun elemento non fosse organizzato all’interno di questa struttura. Questa struttura costruisce qualunque cosa e il suo contrario. Tutte le grandi dicotomie, come ad esempio la distinzione fra razionale e irrazionale, o ragione e sentimento, illustrano ciascuna volta differenti modi di applicare quello che non è altro che un calcolo di sistema. Se ad esempio con “razionale” intendo tutto ciò che muove da alcune premesse e con “irrazionale” ciò che parte da altre premesse, in ogni caso muovo da premesse ed applico un calcolo per giungere ad affermare se un discorso è razionale, oppure irrazionale, ma la questione è che anche un discorso razionale, tanto quello irrazionale, muovono ciascuno da premesse e si muovono in modo assolutamente rigoroso, preciso, anche quando si tratta delle così dette “ragioni del cuore”, sono mosse da procedure che funzionano esattamente allo stesso modo. Il linguaggio, il logos, è un sistema semiotico, un sistema operativo e tutto ciò che viene prodotto da questo sistema operativo assume la forma di gioco linguistico. 

Per la maggioranza delle persone, parlare significa usare il linguaggio, dunque l’induzione è quella di sentirsi padroni del logos come se esso fosse uno strumento. Ma pensandoci meglio, questo uso, è un qualcosa che si apprende, o piuttosto è ciò che consente di apprendere? Perché sì, se è qualcosa che apprendo, allora posso pensare che sia uno strumento del quale mi avvalgo, ma siccome è solo ed esclusivamente attraverso l’uso del linguaggio che posso apprendere qualcosa, come posso apprendere l’uso del linguaggio se per farlo devo usarlo, devo cioè già saperlo usare prima di apprendere come si usa? Questo è l’intoppo che si incontra ciascuna volta in cui si pone una questione senza considerare le condizioni per cui può porsi.

Il discorso della maggior parte delle persone gioca ruotando attorno alle questioni che solleva il linguaggio immaginando che esso sia uno strumento di chi lo usa, senza pensare, senza accorgersi, che questo “chi” è lui stesso un effetto del linguaggio. Tutto questo accade perché è stato inibito l’accesso al sistema operativo per via di come la verità è stata pensata e cercata dal periodo post socratico (cioè come adattamento della parola alla cosa) fino alla Scienza della parola (cioè come adattamento della cosa alla parola), che invece è lo strumento per accedere al sistema, cioè per diventare Analisti della parola e consentire anche ad altri di accedervi.

Il passo da farsi è quello di accorgersi che se parlo, allora dico qualcosa necessariamente e questo qualcosa che dico non è altro che un atto linguistico mosso da un gioco linguistico, mentre nel luogo comune se parlo dico qualcosa che è riferito a qualche cos’altro che non è un atto linguistico, ma che è quella cosa in quanto tale, cioè un’entità ontologica. Tutto ciò che è ontologico richiederebbe un adattamento ad esso, ma obiettivamente a noi parlanti non è dato nemmeno di chiederci se esiste qualcosa di ontologico, nonostante sia un concetto che abbiamo inventato noi, ma lo abbiamo fatto appunto senza sapere cosa stessimo facendo. Chiedersi cosa esiste di ontologico significa chiedersi cosa esiste oltre il logos, oltre il linguaggio, ma onestamente è una questione che non può nemmeno sussistere poiché quando penso a questo qualche cosa che dovrebbe esistere oltre il linguaggio, in realtà questo qualche cosa lo sto utilizzando all’interno di una sequenza linguistica e non è possibile uscire da questo per fare qualunque cosa. Anche per uscire dal linguaggio. Come dire: per uscirci, occorre restarci dentro. C’è un punto di arresto oltre il quale non si va perché è quello che consente di pensare che ci sia, o non ci sia, un punto di arresto.

Ecco, dunque, che cos’è il linguaggio, cioè il logos, è un insieme di regole e procedure, quell’insieme di regole e procedure che consentono di fare qualunque cosa, a cominciare dall’esistere. Il concetto stesso di esistenza non esiste di per sé, è un concetto, è la conclusione di argomentazioni. Il linguaggio, il logos, è l’esistenza delle cose, esistono perché esiste il linguaggio, la loro stessa esistenza è nel linguaggio.

Senza linguaggio non c’è la vita, ché come fa una persona a sapere che esiste la vita in assenza di linguaggio? Non lo sa. E se non lo sa esiste? Uno potrebbe dire sì. Ma come lo sa?

Affermare che la vita esiste al di fuori del linguaggio è un atto di fede, non c’è alcun modo di saperlo, quindi si può solo ipotizzarlo, supporlo, ma non lo si può sapere. Posso affermarlo, ma non posso dire di saperlo se, per poterlo dire, devo dire come lo so. 

E l’unico modo per sapere le cose, l’unica condizione necessaria, è il linguaggio. Tutto ciò che si sa, ciò di cui si ha conoscenza, non sono altro che sequenze semiotiche, proposizioni. Il sapere è fatto di parole, sapere significa propriamente costruire proposizioni in merito a un argomento, costruire sequenze, combinazioni di elementi susseguenti e coerenti. Affermare che il linguaggio non è la condizione per sapere, quindi anche per sapere cosa esiste, significa non sapere ciò che si sta dicendo, significa cioè costruire una proposizione autocontraddittoria perché per potere sapere cosa esiste si utilizza il linguaggio. Tutto ciò che si sa e che si può sapere sono espressioni linguistiche.

Il linguaggio, cioè il logos, non è un’espressione di qualcos’altro che non è logos, espressione di che? Può essere esclusivamente espressione di qualcosa che è nel linguaggio ovviamente. E’ espressione di istanti linguistici. Con il linguaggio si sta pensando il linguaggio, non ciò che c’è al di là. L’assenza di linguaggio potremmo indicarla come l’assenza di pensabilità. Tutto ciò che non è logos è puro nulla perché possiamo pensare solo il logos e dire che c’è altro al di fuori del linguaggio è un’affermazione priva di senso dal momento che tutto ciò che è fuori dal logos non è pensabile e se io affermo che il pensiero lo sta pensando sto mentendo, che in pratica è ciò che afferma la fede. Se non lo posso verificare, rimane un’ipotesi, un’affermazione che attende di essere verificata, ma non è possibile verificare qualcosa in assenza di linguaggio, quindi è un’ipotesi che non è verificabile, cioè è nulla. Ciò di cui non posso sapere nulla è nulla, perché non può darsi né nel pensiero né altrove.

Ci si potrebbe domandare da dove viene il linguaggio, ma ha senso questa domanda e, se sì, quale? Cosa ci si sta chiedendo con ciò? Ci si sta chiedendo cosa c’è al di là del linguaggio, all’esterno del logos. Si tratterebbe di reperire quell’elemento che è fuori dal linguaggio in quanto potrebbe porsi come il primo elemento, ma come reperire un elemento fuori dal linguaggio, attraverso che cosa? Domandarsi da dove viene il logos significa domandarsi che cos’è che non è logos. Ma con un po’ di attenzione ci si accorge che anche questo “qualcosa che non è logos” corrisponde esattamente a qualche cosa che ha la sua condizione di esistenza e di pensabilità solo ed esclusivamente all’interno del linguaggio. Domandarsi da dove viene il linguaggio comporta che gli strumenti attraverso cui e per cui mi pongo questa domanda corrispondono esattamente al linguaggio. 

Ora, quali sono gli strumenti di cui si avvale il linguaggio per funzionare? Soltanto uno: ogni cosa avviene nella parola. E’ un’istruzione, una regola, che serve al funzionamento di tutto quanto e si può parafrasare in molti modi, attraverso la logica, attraverso la metafisica, attraverso la teoria delle idee, attraverso le teorie sull’essere, attraverso qualunque teoria volendo perché ogni teoria ne è l’affermazione, anche quando non lo sa e non lo afferma apertamente.

Ogni cosa è quella che è, ossia appare in un modo, per via di qualcos’altro, questo è il succo. E questo qualcos’altro è il linguaggio.

Se le cose non fossero nel linguaggio non potremmo immaginare l’esistenza di questo qualcos’altro che ce le fa apparire, perché per pensare alle cose come a qualcosa di non immediato, ma di mediato appunto, cioè come conseguenza di un antecedente, occorre una struttura che consente appunto alle cose di connettersi in maniera consequenziale, all’interno della quale esse devono necessariamente stare.

Al che qualcuno potrebbe affermare che le cose, stando al di fuori di questa struttura, vengono poste all’interno soltanto in forma di concetti, ma allora come sappiamo che un determinato concetto, soggetto alle regole della struttura, corrisponde alla cosa che sta all’esterno di essa e pertanto è soggetta a regole diverse?

Occorre un altro mediatore tra chi mette in atto il linguaggio, ossia la persona, è l’oggetto di analisi.

Occorre un terzo elemento che dovrà fare da tramite e confrontare le due cose, ma cosa utilizzerà per fare ciò?

Con quale strumento confronterà ciò che dice una persona con ciò di cui parla per sapere se le due cose corrispondono? 

Come minimo gli occorrerà una struttura che consente alle cose di essere confrontate, dunque una struttura all’interno della quale stiano sullo stesso piano e che possa produrre delle associazioni tra loro.

La condizione degli umani è il linguaggio, il loro fine la parola. Il linguaggio è la struttura, cioè l’insieme di regole e le procedure, che consente la parola, mentre la parola è l’elemento che svolge queste regole e mette in atto queste procedure. Non è che c’è l’uomo e c’è il linguaggio, ma l’essere umano è linguaggio.

Ciò di cui non si può dubitare è il linguaggio. Non si può perché si può dubitare di qualcosa soltanto attraverso il linguaggio.

Ecco perché la verità può essere reperita, quale sia il suo utilizzo questo è un altro discorso, il suo utilizzo passa attraverso la pratica del linguaggio, fuori dal linguaggio la verità non significa niente. L’unica cosa è che fuori dal linguaggio non ci si va.

O si pensa muovendo dal linguaggio come fondamento, o si pensa in modo religioso, superstizioso, supponente, non c’è nessun’altra possibilità, non ci sono alternative. È importante questa questione, ed è importante iniziare a porla in atto, cioè a praticarla, il che comporta naturalmente di interrogare le proprie verità, interrogare i propri pensieri, interrogare il proprio sapere. Occorre, cioè, diventare Analisti della Parola.