Qualunque cosa è un gioco linguistico

Qualunque cosa è un gioco linguistico. Linguistico in quanto, per potersi fare, ha come condizione il linguaggio. 

Gioco, nel senso che appare tale, come uno la vede, la sente, la pensa, la immagina, unicamente perché è inserita all’interno di una combinatoria, una sequenza linguistica, costruita in quella maniera, in base a regole molto precise senza le quali apparirebbe completamente diversa. Perché ci sia gioco, occorre che ci siano delle regole, questa è la condizione fondamentale, non è l’aspetto ludico il carattere predominante del gioco, come talvolta si è indotti a pensare. Il gioco non è nient’altro che la messa in atto delle regole per cui esiste. Considerare ciascuna cosa come un elemento all’interno di un gioco linguistico, comporta che il senso di questa cosa sia strettamente dipendente dalle regole del gioco in cui è inserita.

Esistono due tipi di regole:

Le regole necessarie, quelle strutturali, cioè quelle che permettono al logos di funzionare e che non è possibile cambiare perché, anche per cambiarle, si è costretti ad utilizzarle e sono costituite dal sistema inferenziale e dal principio di identità/non contraddizione/terzo escluso (sono tre, ma affermano la stessa cosa). Queste regole sono a tutti gli effetti delle procedure strutturali, cioè non è possibile non utilizzare per fare costruire qualunque cosa. Esse costituiscono quel gioco che non si può non giocare

Le regole arbitrarie, quelle cioè inventate, assolutamente gratuite, costruite di volta in volta attraverso la parola e che costruiscono a loro volta tutti quei giochi che non è necessario giocare. Una delle regole arbitrarie presente in quasi tutti i giochi non necessari è che non siano dei giochi, ma delle cose che accadono all’esterno dei giochi.

La differenza è che, mentre tutti i giochi arbitrari, per essere giocati, necessitano che se ne conoscano le regole (ad esempio non posso giocare il discorso religioso se non conosco la regola che dice che dio è la verità, così come non posso giocare la matematica se non conosco che 1+1 fa 2), le regole della parola funzionano anche se uno non sa di utilizzarle e non è consapevole di come funziona il loro utilizzo. Per quanto il logos utilizzi regole sicuramente molto più complicate del gioco degli scacchi, nulla impedisce di considerare che esso si tratti a tutti gli effetti di un gioco anzi, ciascuna cosa porta a pensare questo

Non esiste un gioco che non sia linguistico.

Parlare di un gioco che non è linguistico è come dire che costituito da regole che non utilizzano il linguaggio per potersi stabilire, ma quali sarebbero? In ogni caso si è costretti ad utilizzare il linguaggio per poterle soltanto pensare, prima ancora di poterle affermare. Stabilire che una cosa non sia un elemento linguistico e che, dunque, esista oltre il linguaggio, è una regola arbitraria utilizzata in moltissimi giochi. Considerata dunque la priorità del linguaggio, non per ghiribizzo, dunque, ma per una costrizione logica, anche perché è sempre esso che ci consente di costruire dei criteri di priorità, non si può quindi non considerare anche che, ogni cosa che si pensa, si parla, si ascolta, si sente, si vede, si tocca, si percepisce, non è quella cosa in quanto tale, ma è tale in quanto produzione linguistica o, per dirla più propriamente, in quanto inserita in una determinata stringa, una determinata sequenza di significanti, combinati in quel determinato modo in base a determinate regole che, in quanto determinate, sono totalmente arbitrarie, cioè nulla costringe a produrre e costruire quel tipo di sequenza, ad utilizzare quei significanti in quel modo, con quella combinazione.

Accorgersi dell’arbitrarietà del proprio discorso, del proprio pensiero, significa assumersi la responsabilità che si appartiene, significa non poter non tener conto di cosa è fatto tutto ciò che si pensa, si parla, si ascolta, si sente, si vede, si tocca, si percepisce, cioè di linguaggio.

Questo significa propriamente diventare analista della parola.

Questo significa anche comportarsi di conseguenza e allora ci si comincia ad occupare del funzionamento del proprio discorso, del proprio pensiero, cioè a tener conto di ciò di cui non si può non tenere conto riflettendo intorno a ciò che consente di riflettere e di tener conto.

Nella maggior parte dei casi le persone non sono consapevoli delle regole che mettono in atto e se lo sono, non lo sono del perché, ma se lo sono anche del perché, il più delle volte ritengono questo perché una necessità, cosa che spesso non è, ma che considerare tale pone, costringe, in una certa posizione di impossibilità a fare diversamente. Ciò nonostante, sono considerazioni che provengono dalla persona stessa e non da una necessità superiore e il non esserne consapevoli è ciò che impedisce di accorgersi di come funzionano questi giochi che i parlanti mettono irresponsabilmente in atto.

Occorre dunque che ciascuno diventi consapevole e responsabile dei propri giochi e, soprattutto, capisca che non sono necessari e quando invece un gioco lo è. 

Che non è perché un qualcosa lo si chiama “gioco” che non debba essere necessario. Questo è ciò che viene inculcato ai bambini, che alcune cose sono giochi, dunque non necessarie, e altre non sono gioco quindi sono cose necessarie, ma noi analisti della parola, che abbiamo superato la condizione di ingenuità del pensiero, sappiamo che in verità esistono soltanto giochi, alcuni arbitrari, i più, altri necessari, pochi, molto pochi. Ma il fatto che un gioco sia necessario non esclude la possibilità di giocare gli altri. Tutt’altro. Consente di poter giocare tutti i giochi e di farlo meglio, in maniera più accattivante, efficace, divertente, soddisfacente, oltre che responsabile e benefica.

Laddove manca la possibilità di intendere quali regole stanno funzionando e come funzionano, allora è inevitabile supporre che le cose, anziché essere atti linguistici, siano la realtà in quanto tale e questo può comportare dei problemini, primo perché tutto ciò che ritengo esistere indipendentemente da me stesso mi mette sempre nella condizione di subirlo perché è qualcosa che ritengo fuori dal mio controllo per cui non penso di poterla gestire in qualche modo e, talvolta, diventa una minaccia, terrorizza, perché spaventa un po’ il trovarsi di fronte a cose che uno non sa, né può sapere, da dove vengono e allora spesso ci si inventa le cose più strampalate e si cerca una certificazione che venga da parte di altri, da qui la necessità di convincere, di persuadere, di mettere in atto tutta una serie di operazioni perché, più persone si riescono a convincere, più una cosa strampalatissima diviene vera e offre una specie di potere….terapeutico, da un lato, perché apparentemente offre una garanzia, una certezza e fa lì per lì stare meglio, dall’altro anche potere nel senso di essere riusciti ad imporre la propria verità sull’altro. Ma poi, come le migliori cose che hanno costruito gli umani, arriva il momento che cominciano a scricchiolare, a cedere, a mostrare di non essere così certe, così sostenibili e allora via andare altro giro di ruota, altri atti di potere per consentire ad esso stesso di mantenersi tale.

Tutta la società in cui viviamo è stata costruita in questo modo, essa è interamente fondata su giochi di potere

Se, invece, c’è la possibilità di accorgersi che ogni cosa è un gioco linguistico allora ciascuno trova da sé l’inutilità di cercare una verità al di sopra degli altri e quindi cessa di cercare il potere per imporla, cessa di aver bisogno di qualcuno che confermi le cose che pensa, le sue opinioni, i suoi sentimenti, le sue sensazioni, di qualcuno che gli mostri la verità, che gli indichi la via, può trarre molto piacere da una conversazione, eventualmente, ma non ha la necessità di confermare nulla. Accorgendosi che ogni cosa non è altro che un gioco linguistico, cioè è l’effetto di quella sequenza che ho costruito e che quel significato che ho prodotto non esiste al di fuori del gioco in cui mi trovo, si è liberi di accogliere, ciascuna volta, ciò che di inedito si produce in ciascun atto di parola che, in quanto tale, è sempre unico e irripetibile. 

Tutto questo consente di apprendere, di acquisire una quantità notevole di elementi, oltre che una maggior libertà, forse l’unica vera libertà, la libertà dalla costrizione della propria storia, libertà dal dover leggere, interpretare sempre esattamente nello stesso modo e in base a questo decodificare tutta la propria esistenza.

Ciascuno, parlando, si ritrova a mettere in atto un gioco, che in genere è quello condiviso dai più, considerandolo necessario rispetto ad un altro gioco.

Sapere, cioè potere tenere conto che qualunque atto linguistico è tale, qualunque cosa è tale, ossia è una cosa, perché è inserito in un gioco linguistico, è ciò che consente di non cadere in ingenuità teoriche, logiche, linguistiche come quelle di supporre che ciò che vedo, ciò che dico, sia un qualche cosa che è al di là del linguaggio, che esista di per sé e quindi costituisca la verità, la realtà delle cose.

Dinanzi all’eventualità di non potere più non tener conto di una cosa simile, cambia completamente il modo di pensare, tutto ciò che incontro, che mi circonda, assume un’altra connotazione, cambia totalmente. Dal momento che so che sono necessariamente arbitrarie, molte delle argomentazioni perdono del loro carattere di costrizione, quindi dell’aspetto magari terroristico che possono avere perché, se apparentemente costrittive, di fatto non lo sono per nulla e un discorso costrittivo può avere degli effetti. Se le persone si accorgessero di ciò, c’è la forte eventualità che tutto l’intero attuale sistema sociale si modificherebbe e cesserebbe di essere strutturato nel modo in cui lo conosciamo oggi.

Cessati tutti i giochi di potere, ciò che resta è una società di persone che giocano.