Com’è che le persone in genere si interrogano e si pongono questioni?
In genere, ci si domanda sulle cose chiedendosi prima se qualcosa esiste (“esiste l’amore? esiste l’aldilà? esiste il karma?”) e poi ci si chiede che cos’è.
Ora, tutto questo è semplicemente fallace, ingannevole, disonesto.
Perché un conto è partire col dichiarare che accezione hanno gli elementi linguistici che si stanno utilizzando, cioè in che modo si sta utilizzando ciò che si sta dicendo, che cosa si intende con un determinato termine, sicché prima si dà una definizione di un qualche cosa, dopo di ciò lo si elabora, lo si articola, lo si argomenta, affinché da tutto ciò la sua esistenza possa emergere come necessità a posteriori di quanto precedentemente affermato partendo appunto dalla sua definizione.
Un altro è partire col porre l’esistenza di un qualche cosa a priori, ipostatizzato con supponenza e da lì partire con il costruire argomentazioni e ragionamenti per giustificarla. Oltre che deresponsabilizzante è fortemente disonesto, gli antichi gli hanno dato un nome a questa scorrettezza e cioè Petizione di Principio. Essa è una delle varie fallace (dal latino fallere, cioè ingannare) che contaminano la comunicazione e la ricerca della conoscenza.
Talvolta l’inganno è inconsapevole, involontario, nonostante ciò viene trasmesso lo stesso, per questo, se si vuole evitare di essere ingannati e di perpetuare degli inganni, occorre domandarsi, per prima cosa, ciascuna volta che ci si domanda se esiste qualcosa, che cosa ci si sta chiedendo con ciò, cioè che “cos’è esattamente quella cosa di cui si sta verificando l’esistenza, da quale definizione parto per compierne la verifica?” E anche “da quale definizione di esistenza parto per verificare se questa cosa esiste?”
Per seconda cosa, occorre necessariamente domandarsi con che cos’è che si compie tale verifica, cioè se è qualcosa che si costituisce allo stesso modo e in base alle stesse regole di produzione che costituiscono il suo predecessore, cioè la domanda, l’interrogazione, oppure no.
Ora, sebbene tutte le teorie “scientifiche” comuni ammettono di essere costruzioni linguistiche, fatte di elementi linguistici, la fallacia appare quando la verifica di tali espressioni linguistiche viene fatta attraverso metodi, criteri che, per poterli costruire, non si tiene conto delle regole che costituiscono la condizione di esistenza di una qualunque espressione linguistica. Si chiama fallacia per Falsa Causa, infatti vuol far passare come causa dell’esistenza della veridicità di una risposta, un qualcosa che non è né la causa dell’esistenza di una risposta, né dell’esistenza della condizione di veridicità.
Infine, per terza cosa, volendo proseguire oltre con una maggior e ancor più forte dignità, occorre domandarsi:
“Se tutte le risposte che accogliamo come verificate hanno funzione di dire come stanno le cose, allora le cose stanno realmente come diciamo che stanno?”
Se le cose stanno come diciamo che stanno, significa che sono le risposte a dire come stanno le cose, significa che sappiamo che le cose stanno in un modo perché esistono quelle risposte. Risposte che qualcuno, ovviamente, ha costruito, qualcuno, o qualcosa. Il linguaggio, naturalmente. Soltanto il linguaggio può costruire risposte.
Ora, la questione è che, se le cose stanno realmente come diciamo che stanno, allora quelle cose stanno realmente in quel modo perché esistono quelle risposte, cioè perché esiste il logos.
Mentre invece, ciò che insiste nel pensiero comune, quello “religioso”, è che esistano quelle risposte perché le cose stanno realmente in quel modo.
Questa disonestà intellettuale riscontrabile un po’ ovunque qua e là, è un commisto delle due fallace sopraelencate ed è proprio questo ciò da cui si tratta di uscire, ciò che occorre lasciarsi alle spalle e poter finalmente così proseguire.
Proseguire lungo un nuovo e completamente differente percorso.
Un percorso scientifico, un percorso intellettuale, ma anche e soprattutto un percorso di vita, un percorso di crescita perché consente di abbandonare le ingenuità, di acquisire elementi di forza, di affrontare gli ostacoli, di non essere travolti dai problemi, di reperire un nuovo sapere e costruire così la propria esistenza nel perseguimento di quanto di più profondo muove.
Proseguire in questo percorso può talvolta sembrare complesso perché tutto quello che si trae del funzionamento del logos lo si trae mentre si parla del funzionamento del logos, dunque lo si trae soltanto attraverso un sistema il quale, per consentire di continuare a trarre, non può contraddire il sistema stesso e può risultare complesso intendere tutto questo inizialmente, dato che tutta l’educazione familiare, sociale e l’istruzione scolastica, ambientale inducono continuamente verso l’inaccessibilità a questo sistema. Tuttavia, è un percorso oltremodo praticabile e tutto si semplifica man mano che lo si svolge, che lo si pratica. Tutto sta nel cominciare a considerare il linguaggio, il logos, come il fondamento, evitando inutili superstizioni, o atti di fede che non possono fornire alcuna conoscenza e, anzi, la contaminano, la infettano.
Il linguaggio è fatto di istruzioni di cui la persona in quanto tale non è responsabile, non è responsabile di parlare nel senso che non è stata lei a chiedere di imparare ad usare il linguaggio, ma tutto ciò che costruisce, cioè il suo discorso, di questo è assolutamente responsabile.
L’Analisi della Parola è quel percorso, l’unico, che offre questa possibilità, quello di diventare consapevoli della propria responsabilità e farne uso, ma prima di poter fare ciò occorre compiere una scelta perché scegliere di percorrere la via dell’onestà può essere soltanto una scelta e, come tale, comporta delle responsabilità. Tanto quanto quando non viene scelta.
Questo costituisce soltanto l’inizio, il punto di ingresso verso un itinerario del tutto nuovo, che conduce a sviluppare un pensiero forte che non ha bisogno di essere sostenuto da altro, a cogliere più rapidamente le connessioni, le implicazioni, in ciascun discorso, in ciascuna affermazione e ad una maggior libertà, la più estrema, quella di potere considerare qualunque questione, qualunque affermazione, qualunque elemento possa intervenire nel discorso in cui mi trovo, senza dovere ritrarmene per salvare una superstizione, una credenza, qualunque essa sia. E quando il discorso procede con tanta rapidità e con tanta libertà, può cogliere i paradossi, le petizioni di principio e tutto ciò che tenta di affermarsi come vero senza potere in nessun modo provarsi e praticare quanto di più estremo c’è nella parola.
Talvolta le persone manifestano un qualche malessere, esistenziale, sociale, psicoemotivo. Talvolta invece manifestano una curiosità intellettuale estrema non paga delle proprie risposte fin lì reperite e spesso in contraddizione tra loro, cercando una conoscenza più pura, quel sapere incontaminato da effetti illusionistici ed esperienze soggettive che indichi loro la causa delle cose con cui hanno continuamente a che fare e sia in grado di metterli in condizione di risponderne acquietando la coscienza attraverso la possibilità di produrre nuovi e più soddisfacenti scenari, itinerari, orizzonti.
In ogni caso, si tratta di intraprendere ciascuno il proprio percorso di analista della parola.